Nikki Newman e Jason Ross sono una coppia londinese da tempo in cerca di un figlio che non riescono ad avere. Falliti i primi tentativi, si propongono per un’adozione: così ha inizio la loro storia, che altro non è che la lunga strada verso la nascita della loro famiglia. Strada commovente e divertente ad un tempo: Trying è infatti un cosiddetto dramedy, letteralmente una combinazione di dramma e commedia. Di fatti, oltre che sul misto di paura ed entusiasmo che intesse l’inizio di ogni nuova vita – in questo caso, una famiglia –, Trying insiste molto su quanto il desiderio perfettamente umano di diventar genitori oltrepassi, paradossalmente, le capacità umane stesse: ed è proprio la maldestrezza di Nikki e Jason, la loro cronica impreparazione al loro stesso obiettivo, la principale fonte d’umorismo della serie.
Del resto, «trying» equivale tanto al verbo «provare», quanto all’aggettivo «impegnativo»: tale è l’esigente apprendistato che maternità e paternità richiedono. Apprendistato da cui, nonostante tutto, la serie non si lascia spaventare. Anzi: ne fa il segreto dell’avventura.
Trying è una di quelle storie d’amore che raccontano non l’innamoramento, la magia del primo momento, ma l’esperienza della convivenza quotidiana, là dove la passione cede il passo a quel lavoro di squadra e senza tregua che sono le faccende da concludere, i piccoli e grandi incidenti da affrontare, i figli da accudire ed educare. Eppure, è proprio a questa parte della storia della coppia che Trying intende farci entusiasmare: lungi dall’essere un fardello o un esilio dal mondo, per Nikki e Jason la famiglia coincide proprio con l’aprirsi di un mondo nuovo. E tutto questo a dispetto di un portafoglio in perenne sofferenza, dell’ansia di lei o della rabbia sommersa di lui, delle più o meno spiccate stravaganze di entrambi. Non solo: quanto più i due s’impongono (irraggiungibili) standard di competenza, così da essere genitori pronti a tutto, tanto più i loro tentativi vengono sconfitti dalla proverbiale ironia della sorte, o dalla pura e semplice impossibilità di essere una madre ed un padre impeccabili. Nonostante tutto, i due rinnovano il loro obiettivo – l’adozione – come prima, più di prima. Percossi, ma non abbattuti. Delusi, anche arrabbiati, ma non arresi.
A cosa dobbiamo questo testardo aspirare a qualcosa a loro impossibile? E perché Trying vuole farcelo gustare come un’avventura? «Un bambino implica cambiamento, e il cambiamento fa paura. Non sai come saranno le cose […]. Ma non puoi essere troppo attaccato a ciò che pensi sarà la tua vita. É da lì che iniziano i tuoi problemi»: parola di Nikki. Non c’è dubbio che farsi una famiglia sovverta una vita, ma il suo valore sta proprio in questo: l’essere un nuovo inizio. Per edificarla, occorre innanzitutto spogliarsi delle aspettative, che sempre si sforzano di immaginare prima come sarà poi e che, proprio per questo, mal si addicono alla stoffa profonda della vita di coppia e, ancor più, al generare figli, la cui caratteristica è l’essere una continua sorpresa, un imprevisto senza fine. Ben altra cosa dall’aspettativa è il desiderio: se l’una vive di pianificazione preventiva e reclama sicurezze e garanzie, l’altro è disposto a sacrificarle per lasciarsi sorprendere. Da qui, le lacrime quotidiane dei due aspiranti genitori: lacrime di chi muore ogni giorno alle proprie difese per rinascere alla novità continua della vita. Non si tratta di improvvisarsi genitori, ma di crescere in quanto tali (e di abbandonare, quindi, qualunque velleità di perfezione): inutile ostinarsi a voler chiudere il divario tra «ciò che è» e «ciò che dovrebbe essere», sostiene Jason, perché la partita si gioca proprio nell’attenersi a «ciò che è», al suo sorpassare ogni previsione.
E tuttavia, talvolta sembra che Trying cerchi delle scorciatoie: dinanzi alla commissione incaricata di valutare la loro domanda di adozione, a fronte dei tutt’altro che semplici problemi affrontati in quella sede (si tratta dell’episodio forse più complesso dell’intera serie), s’invoca lo sbrigativo principio secondo il quale una persona è pronta ad essere genitore nel momento in cui lo «sente». Qualcosa non torna: gli stessi Nikki e Jason che spesso temono di non essere all’altezza di nulla, ora proclamano la loro assoluta prontezza. Prontezza tanto rivendicata quanto indimostrabile: lo «sentono» dentro di sé, perciò non possono – dicono – comunicarlo al di fuori. Dato questo assunto, alla commissione non resterebbe altro che una fiducia cieca, un assenso incondizionato. Sottratto il «dentro» a qualunque possibilità di obiezione o di verifica dal di fuori, messolo al riparo da ogni discussione, la genitorialità diviene un desiderio incontestabile. E proprio i due che fino a poco prima rischiavano di pretendere fin troppo da sé stessi, ora si sentono vittime di un indebito (e forse maligno) scrutinio da parte delle autorità: allevare una prole diviene ora una mera questione di stato d’animo, di buon cuore, non più di una (corretta) assunzione di responsabilità.
A queste “sbavature”, si aggiungono certi segmenti del racconto più all’insegna del fiabesco che della descrizione più o meno fedele dell’adozione e della vita in famiglia: fiabesco tanto più evidente là dove la storia cessa momentaneamente di occuparsi della relazione genitore-figlio per occuparsi esclusivamente della coppia, come in una comune love story.
Cionondimeno, Trying resta il grazioso racconto di un imprevedibile viaggio che si svolge non in terre lontane, ma nelle stanze di casa e lungo le strade di ogni giorno. Come a dire: la grande avventura della vita ti attende ogni mattina dietro l’angolo. E di questa avventura, la famiglia è tutt’altro che una mortificazione, anzi: è un’opportunità che merita di esser presa in considerazione, e che solo chi è disposto a farsi meravigliare può godersi davvero.
«I figli sono un miracolo» si lascia scappare Nikki ad un certo momento. Qui sta la saggezza di Trying: non abbandonare la novità della vita per amore di una pianificazione. Se lo fai, ti perdi il miracolo.
Marco Maderna
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