CONSIGLIATO DA ORIENTASERIE
Sulle spalle di una giovane donna impreparata al compito ricade, prematuro, il peso della carica più alta del suo Paese: regina di Inghilterra. Questo lo spunto d’avvio di The Crown, che spinge il pubblico a immergersi nella biografia di Elisabetta II dal 1947, cinque anni prima la sua incoronazione, instillandogli la domanda: riuscirà una ragazza a cui la vita sta offrendo le gioie di sposa e di madre a diventare il leader di un’intera nazione, anzi, di un impero? Quanto dovrà sacrificare di se stessa per non tradire il sacro mandato che il destino ha in serbo per lei?
L’interrogativo iniziale sostiene la partenza di un racconto ambizioso che oltrepassa subito i confini della vicenda di formazione della protagonista per farsi affresco storico (ogni stagione della serie attraversa un decennio del regno di Elisabetta), dramma familiare (le turbolenze della Royal Family) e politico (le ambizioni dei prime minister chiamati a colloquio con la regina), ma anche romance (il non facile matrimonio con Filippo, gli amori impossibili della Principessa Margaret) e studio psicologico (da Churchill a Jacqueline Kennedy, dal segretario privato al precettore, nessun personaggio sfugge a uno sguardo lucidissimo sulle segrete debolezze, le umane illusioni, ma anche le risorse nascoste in ciascuno).
Tutto questo è trattato dallo sceneggiatore Peter Morgan puntando su una questione centrale. C’è un tema di fondo che permea il dipanarsi delle trame di The Crown: il dilemma tra le ragioni sovra individuali (il dovere, il valore dell’istituzione – la corona, quello che rappresenta per tanti) e le ragioni dell’individuo (i suoi desideri, la sua libertà, la felicità cui aspirano emozioni e voglie personali).
La produzione Netflix spicca nel panorama della serialità internazionale perché mette in primo piano un’idea apparentemente inattuale. Nell’epoca di Breaking Bad e dei tanti titoli con personaggi antieroici avvitati sulle loro private derive esistenziali, la serie di Peter Morgan dà risalto all’idea che ci sono beni, appartenenze, responsabilità pubbliche che chiedono all’io di cedere, con fatica, il passo. Un po’ come avviene in un’altra produzione britannica, Downton Abbey, ma in maniera più sofisticata. Con sensibilità superiore nel registrare i toni chiaroscurali dell’animo dei personaggi, sia di quelli che si dispongono al dovere, sia di quelli che lo sfuggono.
The Crown va controcorrente ricordando al pubblico di oggi che esistono alternative al narcisismo postmoderno. Alternative di cui il racconto non manca di rappresentare il costo personale. A partire da quello della protagonista che, come prima di lei suo padre Giorgio VI, si ritrova sbalzata in un ruolo non desiderato, che le stravolge la vita costringendola a diventare un’altra persona, alterando i rapporti con il marito, con la sorella, con il figlio Charles. Quando Elisabetta castra la passione tra la sorella Margaret e il capitano Townsend, un uomo sposato (la linea narrativa che nella prima stagione dà maggior risalto al tema della serie), la regina soffre facendo soffrire chi ama, nonostante la consapevolezza di agire come la corona le impone. Come lei, come suo padre, anche tutti gli altri personaggi lungo la serie sono passati al setaccio della prova, del bivio dove scegliere se seguire se stessi o ragioni superiori: Churchill che per orgoglio non vuole arrendersi all’età e lasciare; il Principe Filippo che mal sopporta l’apparato di corte; soprattutto, naturalmente, il Principe Edward, che per seguire il cuore e sposare la divorziata Wallis Simpson ha abdicato, ma che ha dentro di sé il tarlo del rimpianto per quello che poteva e “doveva” essere (si veda la bellissima puntata che, nella terza stagione, racconta la sua morte e l’onore che l’uomo rende alla nipote, a differenza sua, monarca di carattere).
Come riesce la serie a far entrare gli spettatori in una storia lontana dalla sensibilità odierna? Ad allontanare l’ombra dell’anacronismo dalle vicende dell’aristocrazia, della famiglia reale, dell’etichetta di corte? Conta la crescita di Elisabetta, il suo essere sempre più capace di prendere decisioni da statista che giovano al Paese (la visita in Ghana, nella seconda stagione, per trattenere il Paese nel Commonwealth). Contano le ragioni che anche un arcigno paladino della rigidità istituzionale, proposto come il cattivo della serie, il segretario della regina Tommy Lascelles, sa efficacemente esprimere quando osserva che è dalle piccole, individualistiche libertà che comincia lo sgretolamento dell’istituzione (è vero). Contano, soprattutto, scene delicate, che ritraggono la vicinanza dei sudditi al sovrano, alla persona che incarna il simbolo di un’identità culturale e di popolo (si pensi a quando, nella prima stagione, nel quinto episodio, malato, Giorgio VI accoglie commosso l’omaggio di un gruppo di sudditi che con semplicità gli dedica un canto di Natale).
Scrittura sopraffina, attori, dal primo all’ultimo, di mirabile bravura, messa in scena ricchissima che è un piacere per gli occhi. The Crown è un capolavoro.
La quarta stagione non delude le aspettative. Acume psicologico nello studio dei personaggi. Dialoghi colti e al tempo stesso leggeri, piacevoli. Interni ed esterni squisiti, come, sempre, la recitazione (l’ostinazione affilata della Thatcher negli affondi dialettici; gli accenni di titubanza nella spontaneità di Diana). Va però notato che è molto meno presente l’afflato solenne legato al valore dell’istituzione. Diventa minimo lo scavo sul senso della Corona, sul ruolo, tra luci e ombre, della monarchia. Senza di esso, le tante rigidità di corte, private di giustificazioni, passano completamente in cattiva luce. L’esempio di Giorgio VI pare lontano, custodito in solitudine da Elisabetta. Esaurito il tema della leadership, la serie è ora tutta un dramma familiare.
Qui la recensione della Stagione 5.
Paolo Braga