La vita di Seong Gi-hun, un quarantenne di Seul, scorre piuttosto miserabilmente: divorziato, con una figlia a cui non riesce a stare vicino come vorrebbe, privo di un lavoro fisso e sommerso dai debiti, l’uomo vive con l’anziana madre a cui non esita a sottrarre i pochi risparmi e deve continuamente fare i conti con le minacce dei suoi creditori. Quando un uomo misterioso gli chiede se vuole partecipare a dei giochi per vincere un premio in denaro, Gi-hun non esita un solo istante. Si ritrova così su un’isola in mezzo all’oceano, in cui lui e altre 455 persone con esistenze simili alla sua, sono costretti a sfidarsi in una serie di giochi tradizionali per bambini per aggiudicarsi il montepremi finale, sotto lo sguardo attento di alcune guardie vestite di rosso e che indossano maschere con degli strani simboli. Le regole del gioco si rivelano subito chiare e implacabili: chi viene sconfitto, muore.
Nonostante non sia disponibile in lingua italiana, ma vada vista in coreano o in inglese, Squid Game risulta a oggi la serie più vista di sempre su Netflix. Estremamente cruda e violenta (e per questo non adatta agli spettatori più giovani, soprattutto bambini), non risparmia nulla allo spettatore, mettendolo di fronte a delle vere e proprie carneficine e a un ritratto dell’uomo “homini lupus”, ossia disposto a tutto – persino a rinunciare a ogni più piccola traccia di umanità – in nome, prima ancora che del riscatto sociale, del mero istinto di sopravvivenza.
L’inizio di Squid Game rimanda immediatamente a un altro dramma sociale di grande successo ambientato in Corea: Parasite, il film del 2019 diretto dal regista Bong Joon-ho. Il protagonista Gi-hun conduce una vita grigia, monotona, ma non per questo priva di minacce. Ingenuo, un po’ tonto, compie azioni riprovevoli (come rubare dei soldi all’anziana madre per poi giocarseli alla corse), ma è fondamentalmente buono (ci tiene in ogni modo a festeggiare il compleanno della figlia, nonostante sembri destinato a deluderla; divide la sua misera cena con un gatto randagio…). Quando gli viene prospettata l’idea di cambiare vita e di diventare ricco, Gi-hun accetta immediatamente: d’altronde, che cos’ha da perdere?
Sedato e caricato su un pulmino, Gi-hun si ritrova all’interno di uno strano comprensorio costruito su un’isola deserta. A prima vista, il luogo appare una via di mezzo tra un asilo e un lunapark: scale labirintiche dipinte in colori pastello, luminosi campi di grano, parchi giochi formato gigante e circondati da murales di nuvolette. Qui, i concorrenti devono sfidarsi in una serie di giochi tradizionali per bambini (il primo, noto anche a noi, è la versione coreana di “Un, due, tre, stella!”). Per ogni giocatore eliminato, il montepremi finale cresce di 100.000.000 won (pari a circa 73.000 euro). L’atmosfera giocosa viene però bruscamente interrotta già alla fine del primo round di gioco: chi perde, è destinato a morire (ucciso a sangue freddo dalle guardie oppure, nel proseguo delle sfide, perdendo brutalmente la vita all’interno del gioco stesso).
Ecco allora che il lunapark perde qualsiasi aspetto ludico e fiabesco e si trasforma in un campo di tortura, in cui i giocatori sono portati progressivamente a perdere ogni più piccola traccia di umanità: identificati con un numero, indossano tutti la stessa divisa, sono nutriti pochissimo per accrescere la loro rabbia e la loro ferocia, dormono in brandine accatastate l’una sull’altra e, una volta morti, i loro corpi vengono bruciati all’interno di forni crematori. Puntata dopo puntata, li vediamo sempre più pallidi, emaciati, coperti del loro sangue e di quello altrui, mentre le guardie mantengono la loro compostezza quasi robotica. Di loro siamo destinati a non scorgere praticamente mai i volti. E quando ci riusciamo, l’orrore è ancora più grande, perché vediamo che non si tratta di mostruosi criminali, ma di uomini e ragazzi comuni, ingaggiati in un lavoro e con un obiettivo che non comprendiamo fino alle puntate finali.
In parte dramma sociale, in parte film distopico che richiama prodotti come Hunger Games, Squid Game intrattiene il pubblico con il suo meccanismo perverso di prove, vittorie e sconfitte, di giocatori che impariamo a conoscere puntata dopo puntata e a cui, nonostante tutto, finiamo in qualche modo per affezionarci. C’è una sorta di brutale similitudine tra quello che succede sull’isola e quella che era la loro vita precedente: nessuno di loro era uno stinco di santo, ma tutti avevano commesso delle azioni negative (Gi-hun era dipendente dalle scommesse e sommerso dai debiti, il suo amico di infanzia Sang-woo, nonostante gli studi prestigiosi e una mente brillante, rischiava di essere arrestato per frode finanziaria, Sae-byeok era una ladruncola…) che in qualche modo si riflettono nel modo in cui si approcciano ai giochi. Giochi in cui non si scommette più sui cavalli ma sugli esseri umani, in cui si tradiscono gli amici e in cui per sopravvivere sono essenziali furbizia, inganni e atti immorali. Un altro aspetto interessante e, nello stesso tempo, terribile di Squid Game è che i giocatori non sono trattenuti con la forza sull’isola, ma sono liberi di andarsene (se la maggior parte di essi è d’accordo) e di tornarsene alle loro miserabili vite: cosa che accade nella seconda puntata, ma che dura pochissimo. Rimessi di fronte alle loro squallide esistenze, la maggior parte decide spontaneamente di tornare sull’isola.
Nonostante non sia assolutamente un prodotto adatto a bambini, ragazzini e persone facilmente impressionabili soprattutto a causa di una certa fascinazione (che ondeggia costantemente tra attrazione e repulsione) per la violenza, Squid Game riesce nell’intento di mescolare l’intrattenimento crudo di un survival game agli elementi di un dramma sociale, che mette in scena l’enorme disparità economica della popolazione coreana e le differenze e le similitudini tra poveri e ricchi, che forse non sono poi così diversi come potrebbe apparire a prima vista (non a caso, i giochi e la vita sull’isola sono tutti ispirati a una sorta di principio di uguaglianza). E lo spettatore non riesce a interrompere la visione, perché ha una domanda bruciante a cui rispondere: alla fine di tutto, con un montepremi milionario a disposizione, ci sarà ancora un uomo degno di tale nome a goderselo?
Cassandra Albani
Temi di discussione: