La quarta stagione di Slow Horses (Lett. Ronzini) si sviluppa su due binari: da un lato un attentato terroristico che colpisce Londra; dall’altro il tentativo di assassinare un ex agente dell’MI5, David Cartwright. Le due indagini finiscono presto per congiungersi, grazie a River Cartwright che fa di tutto per rintracciare l’uomo che ha cercato di uccidere il nonno. River è uno degli agenti confinati dall’MI5 nella sede chiamata in gergo Slough House (Il Pantano), dove un gruppo di agenti con diverse problematiche (dipendenza, errori, instabilità, etc.) si trova agli ordini di Jackson Lamb. Dovrebbero essere inetti e inaffidabili, ma ancora una volta gli uomini di Lamb sono i primi a scoprire cosa sta veramente succedendo e ad identificare la connessione tra gli attentati di Londra e il passato dell’MI5.
Slow Horses è una spy story, basata sui romanzi della serie Slough House di Mike Herron. Tra un momento adrenalinico e l’altro, lo show affronta temi rilevanti, come l’amicizia, la dipendenza, la capacità di superare le sconfitte professionali e le delusioni esistenziali, proponendo valori spesso in controtendenza con quelli della società contemporanea. Per la presenza di una discreta dose di violenza, peraltro mai esibita, e la scelta di un linguaggio ricco di improperi, riteniamo che la visione sia consigliata a un pubblico di adolescenti o di adulti.
Anche questa stagione, come le altre della serie, ha una durata di 6 puntate di circa 45 minuti l’una. Un numero inusuale nella serialità contemporanea, ma che riflette una scelta precisa: essere essenziali, senza divagazioni, senza perdere di vista l’obiettivo. Grazie a una regia unitaria, affidata per la quarta stagione ad Adam Randall, a un cast coeso e a una matrice letteraria evidente anche se non esibita, la produzione coordinata dal comico e scrittore inglese Will Smith raggiunge l’obiettivo dell’efficacia narrativa. Una parola merita la splendida sigla, la cui estetica anni ’70 è impreziosita dalle note di Strange Game, canzone realizzata appositamente da Mick Jagger.
I Reietti dimostrano ancora una volta il loro valore e come l’unione possa dar forza anche ai deboli. Sebbene il rapporto tra di loro non sia idilliaco, quello che prevale, alla fine, è sempre il senso di appartenenza, di solidarietà. Un valore che del resto è stato trasmesso in primis dal loro capo, Jackson Lamb. Nel suo essere respingente e urticante, quest’uomo cinico e senza slanci emotivi ha trasmesso ai suoi uomini, con le azioni più che con le parole, l’importanza di aiutarsi e di fare squadra, non per ottenere onori e successi, ma per sopravvivere. Resistere alle sfide della vita e alle insidie del Pantano passa anche da questo, dall’avere a fianco qualcuno disposto, tra un insulto e l’altro, a rischiare la vita per te.
Tra i temi sviluppati c’è anche quello del rapporto tra River ed il nonno, nelle passate stagioni punto di riferimento per il ragazzo. River si trova davanti alla dolorosa accettazione della fragilità e della malattia dell’uomo che per lui è stato un padre nella vita privata e un modello sul lavoro, ma questo non gli impedisce di continuare ad amarlo e proteggerlo, al punto da rischiare la propria vita per lui. Tuttavia ci sono scelte dolorose a cui non può sottrarsi. Infine un tema comune a molte serie, cioè l’inadeguatezza dei gruppi dirigenti, dei capi istituzionali. Incarnato dalla figura del nuovo leader dell’MI5, il fallimento dell’establishment appare grottesco e sconfortante. Per fortuna, Lamb ci insegna anche come fare a non prenderlo troppo sul serio: forse non è un modello di buone maniere, ma è dannatamente efficace.
Fabio Radaelli
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