Una tranquilla cittadina di provincia americana, con la sua scuola, la sua tavola calda, la sua stazione di polizia, le graziose villette a schiera. Ma anche un maniero in stile vampiresco, un manicomio gestito da un gruppo di suore pazze, diversi locali clandestini, una fattoria dove risiede una setta esperta nel lavaggio del cervello e nel furto di organi… Tutto questo è Riverdale, la “ridente” location in cui è ambientata l’omonima serie tv ispirata ai personaggi della Archie Comics, una casa editrice statunitense specializzata in collane di fumetti destinati a un pubblico giovanile. Protagonisti della serie sono quattro teenager complementari per caratteri e aspetto fisico, che vivono divisi tra le normali (dis)avventure dell’adolescenza e le situazioni irreali che sembrano poter avere luogo solo a Riverdale, probabilmente la cittadina fittizia con il più alto tasso di criminalità e assurdità nel panorama televisivo mondiale.
Ciascuna delle quattro stagioni di cui è composta la serie affronta un diverso mistero, in cui i protagonisti si ritrovano, loro malgrado, coinvolti: si va dall’omicidio del giovane Jason Blossom nella prima stagione, agli attacchi del serial killer Black Hood nella seconda, dai problemi derivanti da un inquietante gioco di ruolo nella terza, ai segreti che ruotano attorno al prestigioso liceo Stonewall Prep nella quarta. Al caso di stagione si legano poi tutta una serie di avvenimenti e storyline secondarie, che fanno di Riverdale l’emblema di un nuovo filone di serie per ragazzi (teen drama in inglese) che, come Pretty Little Liars e Gossip Girl, mescolano gli ingredienti tipici di questo genere (la scuola, l’amicizia, le relazioni sentimentali, il difficile rapporto con i genitori…) con elementi da mystery e thriller e un tono molto più dark.
Se si dovesse scegliere una sola parola per descrivere Riverdale, probabilmente sarebbe “caos”. Si tratta, tuttavia, di un caos voluto e ricercato dagli autori, che hanno scelto, consapevolmente, di rendere la serie un prodotto palesemente kitsch e irrealistico. In Riverdale c’è un po’ di tutto: lotte tra gang, serial killer a piede libero, famiglie specializzate nel commercio di sciroppo d’acero, adolescenti che mettono in piedi locali clandestini, identità sessuali e relazioni sentimentali fluide, episodi girati a mo’ di musical, giochi in scatola che provocano assuefazione e spingono al suicidio… Insomma, davvero di tutto e di più. Non a caso, Riverdale si fa vanto di essere una serie “trash”, intendendo questo termine non come sinonimo di bassa qualità e pessima recitazione, ma, piuttosto, come estremizzazione delle sue caratteristiche fino ai limiti dell’assurdo, spesso con una precisa valenza autoironica.
L’effetto caricaturale travolge in modo particolare la figura dell’adulto. Non soltanto i genitori si dimostrano molto meno in gamba e intelligenti dei loro figli, ma, in molti casi, incarnano veri e propri modelli negativi o diventano, addirittura, il nemico da battere. Ci sono padri assassini, padri mafiosi che intraprendono lotte senza esclusione di colpi per strappare alle figlie il commercio di alcolici, padri manipolatori… Non va molto meglio alle madri che, nella maggior parte dei casi, sono quantomeno fredde e decisamente poco amorevoli (ma, nel peggiore, possono anche diventare avvelenatrici e tenutarie di bordello…). In questo scenario non proprio lusinghiero, due personaggi si distinguono positivamente, almeno per quanto riguarda il rapporto padre-figlio: da una parte Fred Andrews, il padre di Archie, gran lavoratore e modello positivo, che il figlio si sforza in più occasioni di emulare; dall’altra FP Jones, il padre di Jughead, che, nonostante un passato non proprio irreprensibile, fa di tutto per migliorare se stesso e la sua vita, soprattutto per il bene dei figli.
Tra i punti di forza di Riverdale vi è, senza dubbio, la mescolanza di elementi tipici del teen drama (anche questi un po’ estremizzati, con i ragazzi quasi sempre liberi di fare quello che vogliono e privi di qualsiasi limite o protezione) ed elementi caratteristici del genere thriller/horror (che diventano sempre più preponderanti con il passare delle stagioni).
Altro tratto distintivo è un preciso richiamo alle atmosfere dell’America degli anni ’50-’60, con un tocco vintage e pop evidente, ad esempio, nel look della tavola calda, con i suoi milkshake formato gigante, nelle automobili o nell’abbigliamento di alcuni personaggi. Riverdale è inoltre una serie ricchissima di citazioni, in modo particolare di altri prodotti televisivi degli anni Novanta. Non a caso, nel cast figurano due attori conosciutissimi in quel periodo: Luke Perry (il bello e dannato Dylan McKay di Beverly Hills 90210), deceduto nel marzo del 2019 e che interpretava, nelle prime tre stagioni, il padre di Archie, e Madchen Amick (la Shelly Briggs di Twin Peaks), che veste i panni della madre di Betty Cooper. La presenza di questi due attori, voluti probabilmente per attrarre un’audience più matura verso un prodotto altrimenti squisitamente adolescenziale, contribuisce anche all’atmosfera vagamente nostalgica della serie.
Al di là di ogni possibile critica, Riverdale rimane un prodotto senza alcuna particolare velleità artistica o educativa. Il suo fine ultimo è il puro e semplice intrattenimento, incentrato su personaggi bellocci ma spesso stereotipati e su una trama che punta molto più sui colpi di scena che non sulla verisimiglianza. Detto questo, la serie non può certo essere assunta a prodotto “ideale” per la fascia degli adolescenti, data la quasi totale assenza di un fine didattico o pedagogico, ma, alla fin fine, risulta molto meno pericolosa di tanti prodotti analoghi che si prendono, invece, molto più sul serio.
Cassandra Albani
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