Che cosa succederebbe se un carismatico leader mediorientale, uscito dal nulla, iniziasse ad essere seguito dalle folle come il Messia?
Questa domanda, drammatica e affascinante, dà vita a un thriller politico-religioso in cui l’agente CIA Eva Geller e il suo corrispettivo israeliano Aviram Dahan, dovranno cercare di scoprire la verità su quell’uomo: quali sono i suoi obiettivi? In che direzione vuole spingere le masse? Ma soprattutto: è un impostore o c’è la possibilità che sia veramente colui che dice di essere?
Purtroppo la serie non riesce ad offrire risposte convincenti alle domande che solleva. Nel suo sviluppo tende a frammentarsi per seguire le storie di diverse persone la cui vita è stata “toccata” dal Messia, alcune anche molto interessanti, ma perdendo così di vista le questioni principali. Oppure le lascia volontariamente in sospeso, come rilancio per una seconda stagione che però Netflix ha deciso di non confermare (non è chiaro se per mancanza di ascolti o per le polemiche che ha sollevato, soprattutto nel mondo arabo).
Nel complesso quella che poteva essere una grande serie, rimane un prodotto incompleto, confuso e a tratti noioso. Per un pubblico maturo può offrire comunque interessanti spunti di riflessione riguardo alle motivazioni che ci spingono a credere in qualcosa o in qualcuno, ma se fruita passivamente rischia di creare confusione, anche per la sua tendenza ad attingere a piene mani dagli stereotipi politici e religiosi, con una semplificazione a volte eccessiva. Se si aggiunge a questo una certa dose di violenza, se ne sconsiglia la visione al pubblico più giovane.
Il mistero creato intorno alla figura di Al-Masih (Messia in arabo) riesce a rimanere vivo per tutta la stagione, grazie ad alcuni efficaci rilanci di sceneggiatura e al fascino carismatico di Mehdi Dehbi, un attore che non si vede spesso in televisione ma che è particolarmente indovinato per questo ruolo.
Per quanto le sue battute siano in fondo poche e quanto mai sibilline, risulta credibile l’influsso che esercita sulle persone che incontra e a cui viene dedicato molto spazio all’interno del racconto: i profughi palestinesi, la famiglia di un pastore anglicano del Texas, la madre di una bambina malata di cancro… È chiaro che il fulcro del racconto è proprio sui “credenti” o meglio, su coloro che accettano di mettere in discussione la propria vita a partire da questo incontro straordinario. Alcune di queste storie hanno risvolti interessanti, ma si sente la mancanza di un vero approfondimento e in alcuni casi si perdono senza giungere a una conclusione.
Paradossalmente il personaggio meno riuscito è proprio quello della protagonista, Eva Geller, interpretata da Michelle Monaghan. Nonostante gli sceneggiatori abbiano cercato di arricchire la sua storia con elementi personali, l’irreprensibile agente CIA non riesce a liberarsi di una certa freddezza. Forse perchè il suo interesse nei confronti del Messia rimane sempre sul piano operativo, mentre per gli altri personaggi è una questione drammaticamente esistenziale.
Eva viene presentata come un agente costretta a vedere il mondo in bianco e nero, in buoni e cattivi, perché solo così può prendere rapidamente le drammatiche decisioni che il suo mestiere richiede. Invece tutta la serie sembra prolificare all’interno di una scala di grigi, in cui è impossibile identificare chiaramente i confini e le intenzioni.
Il Messia (che ha origini ebraiche e cristiane, ma un aspetto inequivocabilmente arabo) si propone di riunire le grandi religioni monoteiste. Fra i suoi seguaci troviamo infatti musulmani, ebrei, evangelici, mormoni… mancano stranamente all’appello i cattolici, citati solo di sfuggita. Ma per parlare di tutte le religioni cade a volte in facili stereotipi, che irrigidiscono il racconto. Il suo messaggio risulta molto generico, vagamente pacifista, ma nei fatti più “politicizzato” di quanto non sembri: le masse lo seguono senza sapere dove sono dirette, eppure raggiungono sempre obiettivi che hanno un forte impatto sull’opinione pubblica. Certo, anche questo stratagemma serve a mantenere viva l’ambiguità di base, perché alla lunga il dubbio si rivela l’unica ragione duratura di interesse verso un personaggio che sembra mancare dei sentimenti più umani, come la gioia o il dolore.
In sostanza, è una serie che funziona meglio sul piano intellettuale che su quello emotivo e, pur ponendosi domande interessanti sulle dinamiche della fede, non arriva a raccontarne una vera esperienza.
Giulia Cavazza
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