Le due stagioni della serie diretta da Saverio Costanzo portano sul piccolo schermo i primi due libri della saga L’amica geniale, scritta da Elena Ferrante (nom de plume, dal momento che non si conosce la vera identità della scrittrice), che ha riscosso un grandissimo successo in Italia e all’estero, diventando uno dei maggiori casi letterari degli ultimi anni. Al centro del racconto c’è la storia di amicizia tra Elena Greco (detta Lenù) e Raffaella Cerullo (detta Lila), nate e cresciute nello stesso rione alla periferia di Napoli. Muovendosi dallo stesso punto di partenza, Lila e Lenù intraprendono due percorsi molto diversi: mentre Lenù prosegue gli studi, va all’università e finisce per emanciparsi, in qualche modo, dal rione, Lila è destinata a rimanerne prigioniera, sposandosi giovanissima con un ragazzo che non ama. Se il focus della narrazione è l’amicizia tra le due protagoniste (un’amicizia non lineare, ma che si snoda tra periodi di allontanamento e riconciliazione), un ulteriore punto di forza dei romanzi e della serie è la capacità di delineare l’affresco di una Napoli brutale, in cui i soldi e il potere sono tutti concentrati in mani maschili (e spesso criminali) e in cui le donne sono considerate semplici ornamenti o oggetti del desiderio, a cui si chiede soltanto di essere una brava moglie, una buona madre e un’ottima padrona di casa, capace di tirare avanti con pochi soldi e tante bocche da sfamare. Forse, il maggiore punto di forza de L’amica geniale risiede proprio nella messa in scena della miseria: una miseria non tanto economica, quanto morale, da cui i protagonisti tentano sempre (e molto spesso invano) di salvarsi.
Grazie al fatto di essere una coproduzione internazionale, L’amica geniale gode di un look visivo molto accattivante. La messa in scena, i costumi, le atmosfere sono curatissimi e pensati per attrarre un pubblico anche straniero, che spesso fa coincidere l’italianità (specie quella degli anni ’50-’60) con una napoletaneità un po’ urlata ed estrema, più da cartolina (al negativo) che reale. La cura messa nella ricostruzione ha però prodotto, come contraltare, uno scenario che si dichiara apertamente come un set cinematografico, in cui le strade sono fin troppo pulite e ordinate per essere credibili e in cui transitano auto e treni risalenti a un periodo successivo a quello in cui è ambientata la serie. Il rione risulta un microcosmo chiuso, dominato dalla violenza e dalle logiche del denaro e della mera sopravvivenza, in cui mancano totalmente – per una scelta non priva di conseguenze tematiche da parte degli autori – rappresentanti dell’ordine pubblico e dello Stato, nonché figure di religiosi. Il risultato è una descrizione della Napoli di quegli anni fortemente abbandonata a se stessa, oltre che “laicizzata”.
Perfettamente calato nella parte è invece il cast, particolarmente azzeccato non solo per le attrici che interpretano Lila e Lenù da bambine e, poi, da adolescenti e ragazze, ma anche per i personaggi secondari, che recitano tutti in napoletano stretto accompagnato da sottotitoli (cosa che contribuisce all’impressione di realtà della serie). Una nota di merito va al cast maschile, che ha dovuto cimentarsi con ruoli estremamente difficili da interpretare: quelli di uomini dilaniati dalla passione, dalla paura e dal conflitto, spesso irrisolto, tra amore e desiderio, affetto e smania di controllo, devozione e violenza. Sotto questo punto di vista, è evidente, nella serie, una certa demonizzazione dei personaggi maschili, presentati – nella stragrande maggioranza dei casi – come ottusi, inetti o prepotenti.
Proprio il conflitto è il cardine attorno a cui ruotano molti dei temi affrontati dalla serie. C’è il conflitto tra il mondo del rione e la “Napoli bene”, in cui abita, per esempio, la professoressa Galiani, insegnante di lettere di Lenù, nella cui casa gli studenti si riuniscono per parlare di politica e attualità (non a caso, infatti, la serie pone ripetutamente l’accento sull’istruzione come strumento di emancipazione sociale).
C’è poi il conflitto, fortissimo, vissuto dalle donne del sud negli anni del boom economico. In contrapposizione con un’Italia che cresce ed evolve, le donne del rione rimangono spaventosamente uguali a se stesse, chiuse all’interno delle mura domestiche (o, tutt’al più, impiegate come commesse nelle attività dei loro mariti) e sottoposte a ogni tipo di violenza. Non stupisce che le protagoniste finiscano per sviluppare forme di protofemminismo. Ma si tratta di un femminismo sterile, distruttivo, che vede il rapporto sessuale come uno strumento di vendetta o di ricatto e la maternità come un incubo a cui sfuggire. Persino l’aborto, quando coincide con la perdita di un figlio non voluto, diventa un evento da festeggiare.
Ma l’elemento che costituisce il fascino maggiore de L’amica geniale è sicuramente l’amicizia tra Lila e Lenù, che imboccano sì strade diverse, ma non si perdono mai di vista, in una continua rincorsa l’una dell’altra. Lila e Lenù si amano, si odiano, si supportano, si feriscono. Tutta la loro storia, dall’infanzia all’età adulta, è scandita dal loro continuo confronto, in un rapporto che, se da una parte non smette di stimolarle, dall’altra le avvelena, impedendo loro di strappare del tutto le radici che le tengono ancorate al rione. Per questo lo spettatore non smette mai di domandarsi chi sia l’”amica geniale” del titolo: la Lenù destinata a diventare una piccolo-borghese colta ma incapace di una reale affermazione di se stessa, o la Lila prigioniera del rione ma in grado di battersi come una leonessa nel tentativo di non essere schiacciata dagli ingranaggi di una macchina più grande di lei?
Cassandra Albani
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