CONSIGLIATO DA ORIENTASERIE
Kentucky, anni Sessanta. Beth Harmon vive in un orfanotrofio femminile dopo essere stata abbandonata dalla madre, squilibrata e dipendente da droghe e alcool. Qui la bambina scopre, grazie all’aiuto del custode della struttura – il signor Shaibel – di avere un innato e straordinario talento per il gioco degli scacchi. La sua capacità di visualizzare il gioco e prevedere le mosse sulla scacchiera è aiutata – se non direttamente provocata – dall’utilizzo di tranquillanti che vengono somministrati alle bambine del convitto. Dopo essere stata adottata e introdotta in una nuova vita, per Beth gli scacchi rimangono sempre l’unica vera ossessione da perseguire. Passo dopo passo sbaraglierà tutti gli avversari, scoprendo sulla sua pelle che ogni grande dono comporta un prezzo da pagare e una responsabilità nell’essere gestito e alimentato.
In questo racconto biografico – totalmente di invenzione – si seguono le vicende di una bambina sfortunata ma baciata dal talento, la cui crescita personale coincide con la maturità con cui affronta il gioco degli scacchi. Il suo bisogno di essere amata, dopo essere stata abbandonata dalla madre naturale e aver trovato una nuova madre altrettanto fragile e toccata dalle dipendenze, si traduce tutto nella capacità di controllo e preveggenza che Beth ha nel giocare a scacchi. “C’è il mondo intero in sessantaquattro caselle” dice la bambina prodigio, un mondo che si può perimetrare e gestire, contenuto e quindi affrontabile. Ma vale la pena superare questa “solitudine dei numeri primi” e anche il solitario gioco degli scacchi lo dimostrerà.
Adattamento del romanzo omonimo di Walter Tevis (1983), questa miniserie in sette episodi racconta con una struttura classica e avvincente un dramma di formazione ricco di temi e di spunti di riflessione interessanti.
Beth è una bambina prodigio, divisa tra un passato drammatico da cui rimane sempre segnata e un presente e un futuro in lotta con varie dipendenze e caratterizzati da una plumbea tristezza. La sua capacità formidabile di giocare a scacchi la rende una campionessa solitaria, incapace di instaurare relazioni autentiche e apparentemente anaffettiva. È imbattibile in un gioco che è tutto basato sull’abilità personale e la capacità di ragionamento, ma questa dimensione individualista rende Beth poco capace di relazionarsi in modo empatico con gli altri. “Gli scacchi non sono tutto” dice la madre adottiva a Beth; “Sono ciò che conosco” le risponde la ragazzina. Anche in un’esistenza apparentemente monodirezionale però, si nascondono per Beth incontri e rapporti che danno significato al suo agire e che ne qualificano le scelte. Primo fra tutti il legame con Shaibel, il custode dell’orfanotrofio che per primo la inizia al gioco degli scacchi, che le insegna tutto ciò che sa, che la educa a riconoscere la sconfitta. È lui uno dei personaggi apparentemente marginali ma di fatto cardine per trasmettere il senso del racconto. Così come sono importanti per Beth l’amicizia con la compagna di stanza in orfanotrofio e con alcuni scacchisti incontrati durante il suo percorso.
Sono gli anni della Guerra Fredda e gli scacchi sono ancora un gioco ad appannaggio quasi esclusivamente maschile. Ma Beth si muove implacabile in questo mondo perché quello che conta davvero è il talento, non il genere o il sesso. Ed il talento, anche quello fulgido e naturale come quello di Beth, non è però solo una faccenda privata. Sicuramente va alimentato, con lo studio e l’applicazione, ma per fiorire del tutto ha bisogno degli altri, della ricchezza e della visione che da soli non si possono avere. Ed è questa la risorsa a cui potrà attingere Beth nelle partite decisive, quando seduti di fronte a lei ci sono i massimi scacchisti russi. Il suo cambiamento avviene anche perché si sente, forse per la prima volta nella sua vita, parte di qualcosa, non da sola di fronte alla scacchiera ma sostenuta e letteralmente guidata da chi quell’avventura la condivide con lei, che la aiuta non perché sia una donna ma perché è la più brava. E questo dà senso e profondità a ciò che Beth persegue, facendo apparire il gioco degli scacchi quasi un elemento di sfondo, un argomento specifico che diventa occasione per raccontare una storia molto più grande. Questa nuova presa di coscienza di Beth, che arriva solo alla fine del racconto, rende la vicenda della giovane scacchista profondamente umana e valoriale, permettendole di illuminare un percorso claudicante per le sue fragilità.
Anya Taylor-Joy presta il volto – perfetto nei suoi occhi grandi e nella pelle di porcellana – a Beth, in una narrazione esteticamente curatissima dove anche la messa in scena ha un peso specifico importante (il production designer è Uli Hanish, già sublime in Babylon Berlin). Una storia che vale la pena di essere raccontata. Da scacco matto.
Gaia Montanaro
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