CONSIGLIATO DA ORIENTASERIE
Ci sono tanti modi per raccontare la storia di un Paese. La meglio gioventù, una produzione Rai Fiction/Bibi Film scritta a quattro mani da Stefano Rulli e Sandro Petraglia, sceglie la strada della saga familiare, concentrandosi sulla vita dei fratelli Carati, dalla vigilia del ’68 fino agli inizi del nuovo millennio. Originariamente sviluppata per Rai Uno, la miniserie venne trasmessa in tv nel 2003, dopo essere stata accettata (e premiata) come lungometraggio al Festival di Cannes, cosa che permise alla rete di Stato di far uscire il film nelle sale diviso in due atti. La trama ha inizio quando i giovani Matteo (Alessio Boni) e Nicola (Luigi Lo Cascio) decidono di salvare Giorgia (Jasmine Trinca), un’adolescente con lievi disturbi mentali, dalla clinica dov’è internata. L’idea è di Matteo, studente di Lettere taciturno e umbratile, che sembra provare qualcosa per la ragazza. Ma sarà Nicola, aspirante medico dal carattere solare e simpatico, a stringere un legame con lei, dopo un viaggio nel Nord Europa che lo aiuterà a capire se stesso e i suoi obiettivi. Da questa premessa prende piede un intreccio complesso, in cui gli eventi della grande storia si mescolano, più o meno artificiosamente, alle vicende dei protagonisti e dei loro cari. Il risultato è una specie di diario dell’epoca, un po’ romanzo storico, un po’ racconto di formazione, che cerca di offrire un punto di vista nuovo, personale e lontano dagli stereotipi, sul passato prossimo dello Stivale. Spicca la scelta di ignorare, malgrado le affinità di temi e valori, quasi ogni riferimento alla Chiesa—i matrimoni sono tutti civili e l’unico prete in scena ha un ruolo irrilevante—in un Paese come il nostro, che invece ha profondi legami con la fede cristiana. Un’opera laica, che si distingue nel panorama della fiction italiana per l’impegno produttivo (con oltre 240 set e 24 settimane di riprese, è tra le miniserie più ambiziose targate Rai) e il realismo di fondo (tra le influenze si segnala il film Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti), non certo immune da difetti eppure ancora attuale, perché i suoi personaggi hanno il sapore della verità.
Puartàit, trenos, pal mond a no ridi mai pì / chis-ciu legris fantàs paràs via dal paìs (“Portate, treni, per il mondo a non ridere mai più / questi allegri ragazzi scacciati dal paese”). Finisce così La meglio gioventù (1954), poesia che dà il titolo a una raccolta in friulano di Pier Paolo Pasolini. I versi, ispirati ai canti degli alpini (la “mejo zoventù”, durante la Grande Guerra, era quella che moriva al fronte), si riferiscono ai giovani migranti, costretti ad andarsene dall’Italia alla ricerca di un futuro migliore. Cinquant’anni dopo, Rulli e Petraglia tornano sui temi della giovinezza e del viaggio in questi quattro episodi diretti da Marco Tullio Giordana.
Questa “meglio gioventù” è fatta di uomini e donne che, pur nel loro peregrinare dentro e fuori dai confini nazionali, sentono l’impulso di restare in Italia, specialmente quando tutto sembra andare storto. Nicola lascia la Norvegia per Firenze quando l’alluvione colpisce la città nel ’66, e sua sorella Giovanna (Lidia Vitale), divenuta magistrato, si fa trasferire a Palermo perché “nessuno ci vuole andare”, pochi anni prima della strage di Capaci. Da un lato questa odissea è mitica (c’è molto di Ulisse in Nicola e Matteo), dall’altro è un plauso a chi, magari senza ricompense e lontano dai riflettori, si impegna per salvare le cose belle: che si tratti di un libro o di una cascina, uno studente difficile o una storia d’amore, i Carati non si tirano mai indietro, perché — sembra dirci la serie — vale la pena di tenere in piedi questo Paese. A sostenere i personaggi sono i grandi ideali degli anni Sessanta, prima delle strumentalizzazioni politiche e del terrorismo, ma anche una grande famiglia, di quelle che non fanno pesare i sacrifici, e incoraggiano a guardare al futuro. La decadenza e il dolore non vengono negati: la sensibilità quasi patologica di Matteo gli tarpa le ali, trasformando l’artista che sarebbe potuto diventare in un poliziotto depresso, impegnato a fotografare delitti anziché a “cercare il mistero”.
In un contesto dove la dimensione spirituale resta implicita, sono però i resilienti a fare la differenza, con la loro voglia di vivere e di cambiare lo status quo: come Nicola, che da psichiatra lotta contro la logica dei manicomi, per un approccio più umano alla malattia mentale. Al netto di qualche forzatura e di un primo atto che fatica a ingranare (complici, nonostante la bravura, gli stessi Lo Cascio e Boni, davvero poco credibili come diciottenni), La meglio gioventù rimane un’opera consigliabile e a suo modo coraggiosa, distante dalla comicità spicciola di certe produzioni nostrane, ma anche dal cinismo a cui questi tempi ci hanno tristemente abituati.
Maria Chiara Oltolini
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