All’interno del processo di differenziazione del proprio catalogo promosso da Netflix, Ethos è una delle prime serie turche a ottenere una buona visibilità internazionale e un relativo successo di pubblico.
La giovane Meryem, una ragazza velata di umile estrazione sociale, in seguito ad alcuni svenimenti non riconducibili a una causa organica, inizia una serie di colloqui con la psicoterapeuta Peri, di educazione laica e occidentale. Il confronto fra queste due donne, che per tutto il corso del racconto continueranno a mettersi in crisi ma anche ad aiutarsi vicendevolmente, diventa la spina dorsale di una serie che si propone di raccontare le differenze sociali di un Paese costituito da tanti mondi apparentemente non comunicanti tra loro.
La moltitudine di personaggi che si snodano intorno a queste due donne, infatti, sembrano appartenere a microcosmi diversi, che finiscono per collidere e influenzarsi reciprocamente in maniera inaspettata: si tratta ovviamente di un artificio narrativo, evidente fin dal primo episodio, ma efficace nel raccontare una società più profondamente interconnessa di quanto non voglia credere.
Pur affrontando tematiche di grande rilevanza e attualità (la famiglia, la depressione, le emozioni represse, l’alterità, il ruolo della fede, in questo caso musulmana, nella famiglia e nella società), Ethos rimane un racconto fortemente ancorato alla realtà locale e fatica a raggiungere una vera universalità.
Sia per i ritmi del racconto che per alcune tematiche affrontate la serie non è del tutto indicata per il pubblico più giovane, ma la delicatezza con cui vengono gestite le immagini e i riferimenti alla violenza o alla sessualità lo rendono sicuramente adeguato a un pubblico dagli adolescenti in su.
Il titolo originale di Ethos, Bir Başkadır, che in italiano suonerebbe come “tutta un’altra cosa”, rimanda immediatamente all’alterità che costituisce il nucleo della serie. Si tratta di un tema sicuramente contemporaneo, diventato quasi un vessillo per Netflix, che qua viene declinato in maniera particolarmente profonda e sfaccettata: c’è sicuramente l’alterità sociale di un Paese fortemente diviso fra religiosi e laici, conservatori e progressisti, ma spesso l’“altro” non si trova dall’altra parte di una barricata, bensì all’interno della propria famiglia. Molto interessanti, da questo punto di vista, sono la linea che vede protagonista la cognata di Meryem, Ruhiye, gravemente malata di depressione e per questo irraggiungibile anche dai suoi cari, oppure quella dell’hodja (una sorta di maestro e di guida religiosa), punto di riferimento per la comunità ma incapace di comunicare apertamente con la propria figlia universitaria, che gli nasconde una relazione con una compagna.
Nel condensare in otto episodi una così ampia varietà umana, il racconto non sfugge certo agli stereotipi e per questo è stato spesso criticato, sia all’interno che all’esterno della Turchia.
In particolare, le figure maschili appaiono molto meno approfondite di quelle femminili e, soprattutto nella prima parte della serie, quasi semplicistiche, sia nella loro violenza che nella loro inettitudine. In realtà, proseguendo con la storia, si capisce che anche la loro apparente fissità è soprattutto legata al loro essere imprigionati all’interno di un ruolo, con tutta la frustrazione che questo comporta, e regala alcuni momenti interessanti, soprattutto per Yasin, il fratello di Meryem e marito di Ruhiye, che con i mezzi limitati (e spesso sbagliati) cerca di tenere insieme una famiglia che ama realmente e che sente disgregarsi fra le sue mani. Ma gli uomini rimangono comunque privi della consapevolezza delle loro controparti femminili, forse anche perché non partecipano al processo dalla psicanalisi.
Questa riveste un ruolo centrale, sia a livello narrativo che estetico: è durante le sedute terapeutiche che avvengono molti degli sviluppi del racconto, ma l’intera serie è disseminata di lunghi monologhi, ripresi da una camera fissa, in cui i personaggi rivelano i loro pensieri come se si trovassero davanti ad un’analista. Questo ovviamente dilata i tempi della storia, rendendola prevalentemente introspettiva e dialogata.
A sostenere una scelta registica così ardita è l’altissimo livello recitativo, in primo luogo della magnetica Meryem (Öykü Karayel), ma anche degli altri personaggi, scelti con grande cura.
Proprio per chi è entrato con fatica in questa ottica psicoanalitica lasciano un po’ perplessi gli ultimi episodi, che sembrano chiudere con una semplicità che ha un retrogusto consolatorio gli enormi problemi aperti in precedenza.
Giulia Cavazza
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