Emily Cooper è una ragazza giovane, carina e alla moda che lavora a Chicago in un’agenzia di marketing occupandosi di strategia social. Le viene offerto di andare a Parigi per un anno per aiutare Savoir, un’agenzia che si occupa di beni di lusso e che la sua azienda ha appena acquisito, ad avere un punto di vista americano sui prodotti francesi. Sicura di sé, spigliata e con un forte spirito di gruppo, Emily si imbatterà in una città decisamente poco accogliente, in colleghi snob che la giudicano per la sua mancanza di stile e in un contesto che sembra non sapere che farsene di lei. Le cose cambiano però quando incontra un’amica – ereditiera cinese trapiantata a Parigi che fa la tata per mantenersi ma sogna di cantare – e un vicino di casa di bell’aspetto e dalle indubbie doti culinarie. Parigi assume allora dei tratti diversi, veri, e non più quelli di un’astratta città dell’amore un po’ idealizzata. Con tutte le piccole e grandi scocciature (e sorprese) che le cose vere comportano.
La serie racconta con tono fresco e disimpegnato lo stereotipo – non inedito allo schermo – dell’americana a Parigi. La cornice estetica è scelta con cura per essere di appeal a un pubblico di ragazze – bei vestiti, begli scorci, un giovane avvenente al cui fascino certo Emily non rimarrà immune – ma non fa intravvedere elementi di approfondimento narrativo. È puro intrattenimento, condito con piacevolezza ed elementi ben congegnati (un triangolo amoroso, piccoli ostacoli professionali da superare, una cornice da favola).
È’ una serie di pura evasione e – come spesso accade in questi casi – alla fine della visione rimane attaccato ben poco.
Darren Star, già creatore di Sex and the City, Beverly Hills 90210 e Melrose Place, torna all’universo seriale provando a declinare il suo tipico tono leggero del racconto in chiave adolescenziale e disimpegnata. Ne esce però una serie evanescente dove personaggi più o meno stereotipati si muovono tra mille cliché e ben pochi archi narrativi veri e propri. Emily ha poco da insegnare e apparentemente altrettanto poco da imparare, affrontando le varie piccole vicissitudini – personali e professionali – senza particolare enfasi o trasporto. Da parte loro, i francesi sono raccontati come un concentrato di luoghi comuni che sfiorano l’insensatezza e riducono i personaggi a macchiette in fondo neppure così esilaranti. Un po’ più di spessore arriva solo quando si crea un triangolo amoroso in cui Emily è coinvolta anche se – pure in questo caso – la giovane pubblicitaria non mette in luce un punto di maturazione personale forte e convincente per lo spettatore.
Trattandosi di puro intrattenimento non ci sono neppure degli elementi così distintivi – brillantezza della scrittura, ironia, messa in scena particolare – che avvincano lo spettatore e rendano interessante la narrazione. Lily Collins, che interpreta Emily, riesce miracolosamente a non rendere irritante un personaggio che ne avrebbe tutte le caratteristiche, ma questo aspetto da solo non basta. Come non basta l’acritico spirito positivo americano a rendere digeribili alcune scelte narrative che appaiono un po’ “facili” e poco costruite.
Emily non si fa davvero mettere in crisi da quello che le accade: è spigliata e leggera, prende tutto con spirito sostanzialmente positivo, ma senza che questo venga in qualche modo approfondito e anche sul versante amoroso – dopo essersi lasciata senza troppi drammi con il fidanzato rimasto a Chicago – si infatua del bello chef della porta accanto in un tira e molla amoroso poco efficace anche sul piano emozionale.
Nemmeno dal punto di vista tematico ci sono particolari appigli. Si mettono sul piatto elementi diversi – la tipica ragazza americana che deve fare i conti con una realtà diversa dal suo immaginario, il ruolo che i social media hanno nel panorama della moda contemporanea, la capacità da parte della “vecchia guardia” di accogliere un mondo professionale che cambia prendendone il positivo – ma nulla di tutto questo è poi approfondito realmente e in modo convincente. Si resta sulla superfice, con il rischio in fondo di non raccontare niente.
Rimane la cornice chic parigina, l’atmosfera sognante e qualche outfit degno di nota (rigorosamente indossato da Sylvie, la direttrice francese dell’agenzia) a colorare un racconto paradossalmente sbiadito. Di cui però si intravvede un seguito.
Gaia Montanaro
Temi di discussione:
La seconda stagione di Emily in Paris mantiene le caratteristiche narrative e di tono che avevano caratterizzato il primo capitolo della storia. Emily si trova sempre più coinvolta all’interno del triangolo amoroso che la vede protagonista insieme al bello chef – vicino di casa ed ex fidanzato della sua amica Camille. Emily ha passato con lui una notte di passione salvo poi subito pentirsene (più con la testa che con il cuore). Il problema è infatti che per Emily e Gabriel (questo il nome del ragazzo) non è stata solo un’avventura ma i due provano un sentimento reciproco. E come fare quando bisogna scegliere tra salvaguardare un’amicizia importante o seguire un amore che a poco a poco si fa strada? Relegate a mero sfondo (almeno per i primi episodi) le sfide e le difficoltà lavorative che Emily deve affrontare nell’agenzia parigina, questa seconda stagione si concentra quasi esclusivamente sulla componente relazionale ed amorosa. Rimangono intatti il tono disimpegnato, i vestiti (forse pure troppo) alla moda e la consueta dose di stereotipi. Un racconto di puro intrattenimento che prosegue senza grandi guizzi e con qualche leggerezza di troppo.