CONSIGLIATO DA ORIENTASERIE
Polonia, 1938. Gli ebrei Sol e Nechuma Kurc sono a capo di una grande, coesa e solidale famiglia, composta dai loro cinque figli – Halina, Addy, Jakob, Mila e Genek – e dai rispettivi fidanzati o coniugi, oltre che da qualche nipotino. Ma invasione e persecuzione obbligano i Kurc alla dispersione in Europa e nel mondo, in una corsa all’ultimo respiro, onde sfuggire alla minaccia di cattura, internamento o uccisione. Più volte le loro strade s’incontrano; e altrettante volte li allontanano di nuovo, senza posa. Ma più indefessa ancora della fuga è la loro reciproca ricerca: quanto più distanti, tanto più lottano senza tregua per unirsi di nuovo.
Tratto dall’omonimo romanzo di Georgia Hunter, a sua volta basato sulla storia vera della sua famiglia, We Were the Lucky Ones ricorre ad un’antica ma sempreverde formula narrativa: quella degli amanti separati, costretti ad un lungo e travagliato viaggio lontani l’uno dall’altro, in attesa del sospirato ricongiungimento. Con un preciso obiettivo: dimostrare come a tracciare la direttrice ultima della storia umana non siano la mobilitazione degli eserciti o le iniziative dei governanti, ma la relazione da cui ciascuno è sorretto e di cui è costituito.
Pur dedicando un’attenzione speciale a Halina, la minore dei cinque fratelli Kurc, la storia è un costante alternarsi di trame parallele, ciascuna dedicata ad un singolo o ad un nucleo di parenti in fuga. L’aver scelto quale personaggio principale Halina, la più giovane ma anche la più determinata e spavalda di un parentado comunque pugnace, vuole forse evidenziare quanto la vicenda sia l’equivalente di uno scontro tra Davide e Golia: l’umile che confonde i potenti, il più piccolo degli esseri umani che tiene testa ad un imponente, capillare e intimidatorio apparato bellico e poliziesco.
A sostenere Halina non sono altro che le sue relazioni, le tenacissime radici da cui proviene e la pura e semplice volontà di non perderle: come ogni storia d’amore, We Were the Lucky Ones insegna che tutta la vita è una relazione, una faccenda a due, incompatibile con la solitudine. L’amore, in questo caso, agisce come un magnete, che fa sì che i protagonisti non ambiscano ad altro che a rintracciarsi gli uni gli altri, quale che sia la distanza tra loro. Una forza silenziosa e sotterranea, non meno inarrestabile del frastuono della Grande Storia, e che non fa che disegnare, inosservata e inesorabile, la sua traiettoria.
«Possa la nostra famiglia essere la nostra luce» recita durante una preghiera il padre Sol: la sua vita e quella di ogni Kurc è interamente ed esclusivamente plasmata da questa sorgente. «I figli ci danno il coraggio di affrontare la vita. Ci danno tutte le risorse che abbiamo bisogno di attingere. Ci rendono più timorosi, ma anche più forti»: parole di Nechuma Kurc. La famiglia non è dunque un recinto protettivo, ma un canale d’accesso al mondo; non è nemmeno una privazione o un ritiro dalla vita, ma essa stessa una traboccante potenza vivificatrice, che risveglia e spalanca all’essere persone altrimenti sepolte. Da qui, la sorprendente inarrendevolezza dei Kurc. Non si tratta di invincibili supereroi: a sorreggerli è un legame.
Una tale combattività in nome dell’amore basta a suggerire quanto We Were the Lucky Ones sia un racconto intensamente struggente. Bisogna tuttavia ammettere che la sua trama, pur incalzante, difetta di progressione: un ciclico avvicendarsi di partenze, successivi incontri e nuove separazioni, di prigionie e di rilasci, col conseguente andare a colpire le solite, ricorrenti, emozioni. Emozioni che, per quanto genuine, non fanno altro che ribadire il medesimo significato: la commovente grandezza dell’amore, sia esso filiale, genitoriale, fraterno o di coppia. Si tratta di personaggi che, generalmente parlando, non crescono: indomabili erano all’inizio e tali restano fino all’ultimo minuto. Non si assiste ad alcun cambiamento: e una storia priva di cambiamento, oltre ad essere una contraddizione in termini, corre il pericolo di non soddisfare. In questo caso, contribuisce anche a far sembrare un mero racconto di sopravvivenza quello che, in realtà, è ben di più. Difatti, se si può concordare col titolo nel definire i Kurc «the lucky ones» («quelli fortunati»), ciò non dipende dal loro successo o meno nell’aver salva la vita. La loro fortuna è stata la grandezza della loro famiglia.
Marco Maderna
Temi di discussione: