Scranton, una cittadina della provincia americana in Pennsylvania, lo Stato dell’industria pesante e della classe operaia. La sede locale della Dunder Mifflin, un’azienda che commercializza carta. Palazzina squadrata, un edificio prefabbricato. Posteggio antistante. Magazzino e scarico merci al piano inferiore. Sopra, l’ufficio, dove lo scenario piuttosto grigio si arricchisce di quei dettagli che accompagnano la vita lavorativa di milioni di persone in tutto il mondo: le scrivanie con qualche oggetto personale per infrangere l’anonimato di una postazione identica a tutte le altre, il distributore dell’acqua, i post-it, le fotocopie… E’ il quadro poco poetico della routine feriale. Il luogo dove per cinque giorni su sette si sta per otto ore a fare cose ripetitive, con colleghi che non si sono scelti e che, potendo, forse, non si frequenterebbero. The Office fa di tutto questo il regno di Michael Scott (Steve Carell). Un capoufficio incompetente, irrispettoso, narciso, invadente. Soprattutto, privo di ritegno nelle sue uscite su minoranze razziali, donne, gay, sesso, obesi. Riunioni improvvisate su temi improbabili, discorsi motivazionali dalla prosopopea fuori luogo, figuracce con la dirigenza, strampalate sessioni di training aziendale. A questo Michael, contando sul fedele, invasato assistente Dwight, costringe i suoi sottoposti: la sensibile segretaria Pam, il bello e simpatico Jim, il malcapitato responsabile delle risorse umane Toby, la rigida Angela, la ciarliera Kelly, l’alcolista Meredith, il bonario Kevin, l’indecifrabile Creed, il preoccupato Ryan, lo sbuffante Stanley. Parrebbe un inferno. Invece, la quotidiana esposizione all’esuberanza di Michael, mentre genera lamentele, fa gruppo. A suo modo, la buffoneria del capo è una reazione salvifica all’incubo del tempo che scorre sempre uguale. Le sue trovate rompono la monotonia, si fanno ricordare, creano una storia di cui ci si sente parte. I colleghi diventano come studenti di una classe in cui tra scherzi, musi lunghi, e antipatie, anche ci si accetta e, sotto sotto, ci si vuole bene. Questa nota di umanità sottotraccia, insieme alla comicità spregiudicata, aiuta a spiegare il successo straordinario della sitcom.
The Office è ideata dal comico inglese Ricky Gervais, autore della versione originale, britannica, dello show (2001). Una satira sul mondo del lavoro per affrontare il tema della crisi di mezza età. La fase in cui ci si rende conto che le grandi aspirazioni se ne sono andate per sempre. Che quello che si è ormai si è, e non è il massimo. Il personaggio del capoufficio, sulla BBC interpretato dallo stesso Gervais, nasce, per contrasto, da questo pensiero. E’ infatti concepito come un mediocre inconsapevole di esserlo, uno con un’esistenza quantomai ordinaria, ma con l’ego di una rockstar.
Nel corso della prima stagione, e poi con decisione a partire dalla seconda, la versione americana addolcisce i toni rassegnati dell’originale. Lo showrunner responsabile dell’adattamento, Greg Daniels, ha l’intuizione di portare nel protagonista un po’ del candore che il suo interprete Carell (per sette stagioni nella sitcom) aveva mostrato al cinema in Quarant’anni vergine. Michael Scott acquista così i tratti di un entusiasta, sebbene imbecille. Uno che crede (troppo) in quello che fa, che sogna in grande, e che non vede, o rifugge dal vedere, i disastri che combina. Illudendosi di avere un ottimismo contagioso e una leadership carismatica, oltre ad uno humor irresistibile. Si intuisce, del resto, che l’uomo fuori dall’ufficio non ha altro. E’ solo, e sarebbe perso senza chi lavora per lui, che è insieme il suo pubblico e la sua famiglia. Motivi che accendono negli spettatori simpatia e un pizzico di tenerezza. Si ha la sensazione che alla fine il capo, a modo suo, ci tenga ai suoi. Di certo a stare insieme con loro.
In altre parole, The Office fa sua la capacità di tanti successi Usa (si pensi a Friends) di disseminare la comicità con piccoli momenti di sentimento che danno un senso di profondità alla storia. Può essere Michael che, il solo ad essersene ricordato, a fine puntata, si presenta a sorpresa ad una mostra dove Pam aveva esposto i suoi disegni. Possono essere gli andamenti della titubante love story tra la segretaria e il commerciale Jim, che attraversa lo show di stagione in stagione. In queste variazioni sull’originale si concretizza l’approccio che Daniels sintetizza così: ho preso lo show e ci ho infuso speranza. Che è quanto ha fatto decollare la serie americana. Sull’orlo della cancellazione al termine del suo primo anno, oggi è tra i titoli più visti sulle piattaforme in streaming, tanto negli Usa quanto in Italia.
Tecnicamente una sitcom single camera (senza cioè l’impianto teatrale e le risate preregistrate; la macchina da presa che segue l’azione come in un film), The Office ha nel realismo dello stile finto-documentaristico un punto di forza che esalta la recitazione (spesso sublime, per esempio nel rendere i momenti di imbarazzo) e la comicità (la cinepresa come un personaggio anonimo con cui gli impiegati di tanto in tanto follemente ammiccano).
E’ essenziale alla formula che Michael Scott e Dwight facciano battute (e non solo) su tutto. Chi ama la serie si aspetta che le gag sorprendano osando fin dove non si penserebbe lecito. Secondo Carell lo si accetta perché si capisce che Michael non è un razzista o uno che detesta gli omosessuali, è solo uno che manca di coordinate di pensiero su questi argomenti. Nella sua inettitudine non ha riferimenti, per questo ricorre agli stereotipi. Sia come sia, ferve il dibattito: oggi, a vent’anni dalla partenza dello show di Gervais, in epoca dominata dal politicamente corretto, Hollywood, dovesse rifarla, quanto salverebbe di questa sitcom?
Paolo Braga