Tratto dalla saga Cronache del ghiaccio e del fuoco (A Song of Ice and Fire) di George R. R. Martin, Game of Thrones, in Italia noto anche come Il trono di spade, è uno dei prodotti televisivi di maggior successo degli ultimi dieci anni.
Ambientato nella terra di Westeros, in un Medioevo immaginario, Game of Thrones è un monumentale affresco epico, con la più vasta schiera di personaggi e la più complessa trama mai viste finora, pensate per offrire una versione alternativa della storia d’Europa. L’ambizione, dunque, è quella di riflettere sull’intero, millenario, percorso della civiltà occidentale.
Westeros è un continente in guerra: gli abitanti dei sette regni in cui è suddiviso lottano per impadronirsi dell’unico trono che governa tutti gli altri. Ma mentre la perpetua, funesta, partita per il potere non fa che aggravarsi, un’inarrestabile armata di morti viventi, in arrivo dal misterioso e gelido Nord, stringe il suo cerchio attorno ai contendenti, minacciando di risucchiarli tutti quanti. Toccherà a uno di loro l’infausto compito di radunare gli eterni litiganti in un unico esercito, nel disperato tentativo di fermare il comune nemico.
Non foss’altro che per confrontarsi con l’interpretazione che Martin (e, con lui, i creatori della serie Benioff e Weiss) danno della civiltà europea, Game of Thrones è una storia che merita di essere seguita. Ma, occorre dirlo, è bene essere pronti ad un concentrato di sangue, efferatezze, crudeltà e torture davvero elevato. Solo gli orrori più estremi sono lasciati fuori campo: tra questi, due casi di violenza sessuale, che fanno – fortunatamente – da eccezione in un ventaglio di scene erotiche per lo più senza filtro, anche se non troppo numerose.
Game of Thrones è dunque un programma per soli adulti, adatto a chi se la sente di oltrepassare l’apparente (per quanto discutibile) veste da mero festival delle atrocità, per scoprire un racconto che chiama in causa l’intera nostra cultura (nel bene e nel male), capace di una drammaturgia complessa e che non ha nulla da invidiare, quanto a sontuosità della messinscena, al grande schermo.
Tra le ragioni del successo di Game of Thrones c’è senz’altro l’originale struttura narrativa: un gigantesco torneo, in cui i personaggi della vicenda si danno battaglia l’un l’altro, a suon di duelli e di machiavelliche strategie politico-militari, in vista dell’ambito premio. Torneo letale, dato che il racconto è concepito come una serie di eliminatorie, al termine delle quali si conosceranno i finalisti (i sopravvissuti) e, infine, il vincitore che siederà sul trono. Agli spettatori, cui è concesso divertirsi a fare scommesse e a tifare per questo o quell’altro concorrente, è inoltre dato sapere quel che i loro campioni ancora non immaginano: l’arrivo di un gareggiante inatteso, più potente di tutti gli altri messi assieme, cioè il capo dei morti viventi.
Ma ci sono altri fattori che possono svelare il segreto dell’attenzione riscossa dalla serie, gli stessi che, a conti fatti, rendono questo prodotto davvero degno della sua visione. In quanto riflessione sulla storia d’Europa, Game of Thrones attinge a piene mani al suo patrimonio storico-letterario, a figure ed eventi che, magari inconsciamente, risuonano già da tempo nell’animo dell’uomo occidentale. Difficile non notare, ad esempio, che lo scontro tra le due dinastie rivali al centro del vasto scacchiere bellico (a sua volta eco dei conflitti mondiali) è un aperto riferimento alla Guerra delle Due Rose: gli Stark e i Lannister di Game of Thrones sono gli York e i Lancaster dei libri di storia. Difatti, Westeros ha la sagoma della Gran Bretagna; la sua capitale (King’s Landing) è nella stessa posizione di Londra; la grande muraglia che separa i suoi sette regni dal profondo Nord è tale e quale il Vallo di Adriano. Non mancano altri tòpoi familiari quali il sacrificio di Ifigenia, le Idi di Marzo, le arene dei gladiatori, i Vangeli, gli ordini cavallereschi e monastici, nonché figure archetipiche liberamente rielaborate, quali un redivivo Rasputin (la consigliera e maga Melisandre), una sorta di Giovanna d’Arco-Don Chisciotte (la guerriera Brienne di Tarth) o Riccardo III (il nano Tyrion Lannister).
Ed è proprio nel dipingere i membri della famiglia Lannister che il pennello degli autori dà il meglio di sé: dietro ai due fratelli Tyrion e Jaime e alla loro sorella Cersei, si cela (tratto comune a diverse serie tv) una matrice shakespeariana. Se i discendenti degli Stark, loro avversari, devono buona parte di quel che sono alla solida educazione familiare, i fratelli Lannister, al contrario, sono il paradigma della famiglia non in quanto luogo delle profonde radici di una persona, ma quale luogo delle sue più profonde ferite. Ferite che, se non superate, divengono devastanti per sé e per l’ambiente intorno: nel loro caso, il concetto di “linea di sangue” (famiglia) acquisisce il tragico doppio senso di “scia di violenza”. Una violenza sempre più folle, di cui fan le spese non soltanto i diretti interessati, ma l’intera Westeros, dato che fin dall’inizio della storia, i Lannister vivono a corte: quando i fantasmi di famiglia prendono possesso del palazzo – altro topos shakespeariano –, le conseguenze ricadono su tutto il regno, che finisce divorato da rancori personali, da passioni fuori controllo.
In effetti, la fondamentale linea di confine tra i vari personaggi – linea su cui è facile si trovino a cavallo – sembra essere tra persone disposte a bruciare il mondo intero in nome del proprio particolare e altre che, invece, imboccano la strada del sacrificio personale, necessario al bene comune.
Ma qui emerge l’aspetto forse più controverso della serie: sì, perché il «bene comune», in fin dei conti, è ridotto a sinonimo di «duello contro la morte» (simboleggiato dallo scontro coi morti viventi), che nessuno può vincere, ma solo ritardare il più possibile. L’impossibile unità di cui i litiganti di Westeros hanno così urgente e disperato bisogno andrebbe dunque cercata in una comune lotta per la sopravvivenza, per il mero prolungamento della vita: non c’è altro valore degno di questo nome. In fondo, nella millenaria storia di Westeros – che, lo ricordiamo, rappresenta la civiltà europea –, tutti i tentativi (religiosi, culturali, politici) di dare ordine e scopo alla vita in comune sono mere sovrastrutture, fallimentari e tristi tentativi di dare una parvenza di dignità ad un’umanità che, in realtà, sia essa guidata da dolenti piaghe come quelle dei Lannister o da istinti d’altro genere, è capace solo di pulsioni nefaste, buona soltanto a scatenar guerre, a escogitare metodi sempre nuovi di violenza e sopraffazione. A meno che non impari ad investire le sue energie nel collettivo sforzo di rimandare la morte, anziché diffonderla e affrettarla con le sue diaboliche liti e giochi di potere.
Ma davvero l’eredità dell’Occidente è tutta qui? Può una summa della sua storia e cultura essere ridotta a questo? Davvero la barbarie è l’unica cosa in cui i nostri avi hanno saputo progredire? E davvero non abbiamo altra speranza di migliorarci che aspirare al mero sopravvivere? Ciascuno potrà valutar da sé l’adeguatezza o meno della tesi di Game of Thrones; valutazione certo distinta – ma non del tutto disgiunta – dal già citato problema dell’alto tasso di pugni nello stomaco: se, da un lato, la materia trattata non può eludere la messinscena della violenza, dall’altra, l’odierna sistematica prassi di distribuire sangue (e sesso) a buon mercato svela, in questa serie, tutta la sua ambiguità e il suo dubbio gusto.
Molto altro può essere (ed è stato) detto di Game of Thrones: quale che sia il giudizio personale di ognuno, non ultimo sul (molto discusso) finale della serie, il tempo dedicato alla visione stimola comunque interrogativi anche profondi. D’altronde, la posta che Game of Thrones mette in gioco è quanto mai alta: cos’è questa grande storia che abbiamo ereditato, di cui facciamo parte, e che cosa di essa può valere il nostro combattere?
Marco Maderna
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