Tratta da un rivoluzionario fumetto di Gerard Way, The Umbrella Academy fonde due generi molto in voga ma apparentemente lontani fra loro: l’avventura di supereroi e il racconto di una famiglia disfunzionale.
Nel 1989, 43 donne in diverse parti del mondo danno alla luce un figlio, sebbene non avessero dato segni di gravidanza fino a quel momento. Un misterioso miliardario adotta (o, più propriamente, “compra”) sette di questi bambini, dotati fin dalla tenera età di poteri straordinari, e li cresce con una rigidissima disciplina dando vita all’Umbrella Academy, una squadra di supereroi in grado di combattere i criminali. Peccato che l’esperienza sia di breve durata. Infatti, mano a mano che i ragazzi crescono, diventano sempre più insofferenti al distacco emotivo e alle regole imposte, decidendo di allontanarsi dalla famiglia.
All’inizio della serie, i fratelli Hargreeves sono dei trentenni profondamente irrisolti, riuniti nella casa natale dall’improvvisa morte del padre e con l’unico desiderio di tornare il prima possibile alle rispettive vite. Ma la comparsa di una minaccia che grava sulle loro esistenze e su quella dell’intero pianeta li costringerà a tornare in campo come squadra.
Già dal primo episodio si nota la presenza di tanti elementi di genere, fra cui un uso non indifferente della violenza, ma con tratti stilizzati che rimandano al mondo dei fumetti da cui proviene la storia e che ne diminuiscono l’impatto.
Molto stilizzati possono apparire anche i personaggi, ma nonostante questo si finisce per affezionarsi a loro: si tratta sicuramente del punto di forza della serie, che dietro a una patina di ironia (non sempre di buon gusto), riesce a raccontare l’imprescindibile ruolo della famiglia nella formazione dell’identità di ciascuno.
Luther ha trascorso gli ultimi anni sulla luna, in missione per conto del padre. Diego va in giro a fare il vendicatore mascherato grazie alla sua abilità con i coltelli. Allison ha cercato di costruirsi una famiglia normale, ma senza grandi risultati. Klaus è appena uscito da una comunità solo per ributtarsi sull’abuso di droghe. Ben è morto, ma continua a parlare con Klaus, che ha fra le sue abilità quella di vedere i defunti. Vanya ha appena fatto uscire un libro in cui racconta cosa significhi crescere senza superpoteri in una famiglia in cui tutti gli altri sono straordinari.
E Numero Cinque, scomparso quando aveva tredici anni, ritorna dal futuro in cui era rimasto intrappolato per rivelare ai fratelli che hanno solo una settimana per sventare l’apocalisse.
Non c’è da sorprendersi che, in una storia di supereroi, anche gli ostacoli debbano essere di proporzioni epiche, con sicari capaci di viaggiare nel tempo e una tragedia che minaccia le sorti del pianeta, ma fin dalle prime battute si capisce che la vera sfida è nel cuore della famiglia: se i fratelli Hargreeves riescono a rimanere uniti, c’è speranza anche per il resto dell’umanità.
Il problema è che hanno tutte le ragioni per detestarsi. E non solo a livello caratteriale o per le strade opposte che hanno intrapreso nel corso della loro vita, quanto perché essere di nuovo insieme nella casa in cui sono cresciuti gli ricorda ciò che sono stati e che in fondo sono rimasti anche adesso: un gruppo di ragazzini a cui i superpoteri non sono stati donati, ma imposti. Che proprio a causa della loro eccezionalità non hanno potuto godere di un’infanzia normale. E che, di conseguenza, non sono mai riusciti a crescere.
L’infantilità è infatti il tratto dominante nei loro rapporti e le dinamiche che si trovano a dover gestire – dalla rivalità fra Luther e Diego alla perenne emarginazione di Vanya – sono le stesse di quando avevano tredici anni. Se riescono a risultare credibili, nonostante le inevitabili forzature, è grazie a un ottimo cast di attori (fra cui spicca il giovanissimo Aidan Gallagher) e alle storie personali che si scoprono pian piano, dando loro uno spessore e permettendo al pubblico di comprendere le ragioni della loro eccentricità.
Questa centralità data ai personaggi e ai loro rapporti familiari è alla fine il motivo di più profondo interesse per un prodotto che si propone come fine principale l’intrattenimento, con un ritmo serrato, un’estetica ricercata e un’ironia sopra le righe che, applicata anche a temi delicati (quali l’abuso di droghe), può rendere la serie poco adatta al pubblico più giovane.
La seconda stagione è basata molto curiosamente sulla stessa struttura della prima (apocalisse compresa), ma capace di rinnovarla con un cambio di ambientazione e, soprattutto, di raccontare qualcosa di nuovo su tutti i personaggi. Perché, alla fine, chi ha continuato a seguire la serie lo ha fatto per essersi affezionato a loro e per essersi scoperto a pensare, almeno una volta, che avrebbe voluto crescere anche lui nella famiglia Hargreeves… se proprio avesse dovuto crescere in una famiglia disfunzionale di supereroi.
A quattro anni dall’uscita della prima stagione e dopo che la serie è diventata una dei prodotti di punta di Netflix, i fratelli Hargreeves sono tornati per la terza volta sugli schermi, con i soliti problemi familiari da supereroi e la solita apocalisse da sventare.
Si tratta di un format che ironizza sulla sua stessa ripetitività, ma che in ogni stagione ha comunque la capacità di trovare un rilancio originale: se la seconda è ambientata nel passato, la terza li riporta nel presente… ma in un presente in cui il loro eccentrico padre non li ha mai adottati, preferendogli altri sette bambini. Tornando quindi a casa loro, non solo si trovano davanti vivo e vegeto il genitore che avevano perso all’inizio della serie, ma trovano anche la Sparrow Academy, una famiglia apparentemente molto più unita e funzionale della loro, che diventa specchio dei loro limiti e occasione per affrontarli.
Pur non abbandonando il tono irriverente e surreale, la terza stagione è probabilmente la più introspettiva della serie: c’è chi trova l’amore e chi l’ha perso per sempre, c’è chi può finalmente affrontare i problemi irrisolti con il padre e chi scopre inaspettatamente di essere diventato padre a sua volta… e fra le tante storyline, c’è anche la molto discussa transizione di genere di Vanya in Viktor, affrontata in maniera tanto minimalista da essere data quasi per scontata, in quanto riflesso di quella avvenuta nel mondo reale.
The Umbrella Academy, fin dai suoi esordi, è una serie che fa ridere più che pensare, anche a costo di liquidare gli stessi temi che solleva in maniera un po’ troppo semplicistica. Ma i fratelli Hargreeves stanno crescendo, ognuno a modo suo. E come loro iniziano a prendersi più sul serio di quando non facessero nella prima stagione, speriamo che anche la serie abbia il coraggio di farlo, accompagnandoli verso un degno finale.
Giulia Cavazza
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