La diciassettenne Hannah Baker si suicida. Prima di morire, però, ha provveduto a registrare alcune audiocassette, in cui spiega i tredici motivi che l’hanno spinta a togliersi la vita. Le audiocassette rappresentano così una sorta di accusa postuma a tutti coloro che, in qualche modo, hanno contribuito a farle del male.
Da questa premessa forte e decisamente drammatica prende avvio la serie tv Tredici (13 Reasons Why in lingua originale), giunta ormai alla terza stagione conclusa. Si tratta di un prodotto di cui si è molto parlato, sia per il grande successo che ha riscosso presso i teenagers, sia per gli elogi e le numerose critiche di cui è stata oggetto. In generale, il buon riscontro che ha avuto ha portato Netflix a trasformarla, da serie stand-alone e autoconclusiva, in un prodotto costituito da più stagioni, che si allontanano progressivamente dal fulcro originario (gli ultimi mesi di vita e il suicidio di Hannah, appunto). Nella seconda stagione, infatti, viene raccontato il processo intentato dalla madre della ragazza contro la scuola della figlia, allo scopo di scoprire tutta la verità sulla sua morte. La terza, invece, ruota attorno alle indagini sull’assassinio di Bryce Walker, un alunno della stessa scuola che aveva avuto un ruolo chiave nella morte di Hannah.
Il prodotto, soprattutto per quanto riguarda la prima stagione, è molto ben realizzato, grazie alle ottime doti recitative degli attori e a una modalità di racconto molto particolare, che alterna i punti di vista dei personaggi e dosa sapientemente le rivelazioni al pubblico.
La serie si propone di affrontate alcuni drammi vissuti dagli adolescenti di oggi (il suicidio, il bullismo, la depressione…), in un’ottica e con un approccio che vorrebbe essere di aiuto e comprensione. Purtroppo, però, il risultato ha finito inevitabilmente per allontanarsi da questo proposito, facendo di Tredici l’esempio emblematico di un nuovo filone di teen drama molto cupi e negativi, a cui hanno fatto eco, successivamente, altri prodotti simili, come Elite o Euphoria.
Le prime due stagioni di Tredici costituiscono una sorta di dittico incentrato sulla figura di Hannah Baker, che è presente in scena sia in carne e ossa, sia come fantasma o ricordo che continua a ossessionare chi l’ha amata in vita. Peculiarità della serie, infatti, è l’intreccio di almeno due linee temporali, di cui una ambientata nel passato e una nel presente, che si alternano continuamente. Nella terza stagione, invece, il personaggio di Hannah scompare definitivamente. La serie perde così uno dei suoi due protagonisti principali (l’altro è Clay Jensen, compagno di scuola e amico della ragazza, segretamente innamorato di lei) e si trasforma in qualcosa d’altro. L’ultima stagione, infatti, assume in tutto e per tutto le caratteristiche di un thriller (c’è un delitto, ci sono le indagini, ci sono i sospettati), mentre le prime due richiamavano maggiormente al teen drama e, per quanto riguarda la seconda, al legal.
Tre stagioni molto diverse, dunque, eppure accomunate da uno stesso elemento: il tentativo di affrontare una molteplicità di tematiche ritenute “calde” per gli adolescenti di oggi (o, perlomeno, per quelli americani). Si va dall’aborto al bullismo, dal pericolo delle armi all’utilizzo delle nuove tecnologie a fini ricattatori. Un grande calderone, insomma, da cui emerge un ritratto del teenager tipo niente affatto lusinghiero.
Prendiamo, ad esempio, il tema del suicidio, vero punto focale della serie. La prima stagione ruota tutta attorno alle ragioni che hanno spinto Hannah a togliersi la vita. Peccato che tutte – da quella più grave e lacerante (lo stupro) a quella più banale e infantile (il furto di un disegno indirizzato alla protagonista) – vengano appiattite sullo stesso piano. Le prime diventano così delle “cause tra le tante”, perdendo inevitabilmente di forza. Stupisce poi il fatto che Hannah non solo non si sia posta minimamente il problema del dolore che il suo gesto avrebbe arrecato alla sua famiglia e ai suoi amici, ma – nonostante la sua giovanissima età – non sia stata in grado di trovare anche una sola ragione per andare avanti e continuare a lottare: non l’amore per i genitori, non l’affetto per gli amici, non una passione, non un sogno.
La serie è stata giustamente criticata per il rischio di induzione al suicidio. In modo paradossale, il suicidio viene presentato come una sorta di “vendetta” e, nella prima stagione, il personaggio di Hannah finisce per assumere, proprio in quanto suicida, un’irreale posizione di superiorità rispetto agli altri. Negli Usa, una ricerca condotta da ricercatori di diverse università e dal National Institute of Mental Health ha rilevato un aumento del numero di suicidi tra gli adolescenti in seguito alla visione della serie. Questo ha spinto Netflix a decidere di tagliare la scena del suicidio di Hannah (peraltro molto cruda) dall’ultima puntata della prima stagione. Al di là di una più o meno diretta correlazione, anche se il rischio di induzione al suicidio riguardasse una percentuale minima degli spettatori (giovani con difficoltà o con precedenti tendenze depressive, ad esempio…) sarebbe comunque talmente grave da giustificare ogni tipo di cautela nella diffusione della serie.
Un altro problema di Tredici è l’assoluta inconsistenza della figura adulta. Non solo i genitori non riescono ad aiutare i loro figli e, anzi, sembrano non conoscerli affatto, ma manca una qualsiasi figura di riferimento adulta capace di sostenere i ragazzi nel loro difficile percorso di crescita. La demolizione dell’adulto diventa ancora più paradossale nel momento in cui gli episodi della serie vengono mandati in onda accompagnati da un messaggio che consiglia la visione in compagnia di un adulto e sprona a non avere paura di chiedere aiuto. Ma da chi dovrebbe arrivare questo aiuto? La serie sembra suggerire che soltanto il gruppo dei coetanei sia in grado di “comprendere” fino in fondo, mentre gli adulti risultano, fondamentalmente, inutili.
Infine, un ultimo problema risiede nella caratterizzazione di alcuni personaggi. La serie, infatti, sembra porre l’accento sui chiaroscuri. Non esiste vera bontà o vera cattiveria: tutti sono un po’ santi e un po’ peccatori. Ne è un esempio lampante il personaggio di Bryce Walker, presentato come il male assoluto nelle prime due stagioni, e infine praticamente assolto (anche se al prezzo della vita) nella terza. Se la scelta di non assumere una chiara e definitiva posizione morale nei confronti di un personaggio (o, quantomeno, delle sue azioni) può apparire in qualche modo realistica e più interessante per un pubblico adulto, davanti a una platea di ragazzini questa finisce per diventare, inevitabilmente, pericolosa. Perché giustificare l’autore di uno stupro con la sua, seppur difficile, storia famigliare e coprire l’autore di un omicidio al prezzo del sacrificio di un altro personaggio, per quanto malvagio, vuol dire confondere e cancellare qualsiasi coordinata morale. Con effetti che non possono che risultare drammatici.
Quello che appare immediatamente evidente, guardando la quarta stagione di Tredici, è quanto lo show si sia ormai allontanato dalle premesse originali. I protagonisti frequentano l’ultimo anno di liceo presso la Liberty High e si trovano a fare i conti con i loro sensi di colpa e con le conseguenze di tutte le bugie che hanno raccontato. Ma, nel complesso, si avverte la mancanza di una linea narrativa forte, che tenga insieme tutta la stagione.
A sottolineare la rottura con le stagioni precedenti è sia una differenza formale (dieci puntate al posto delle canoniche tredici, nonché l’assenza di un elemento-chiave attorno al quale far ruotare i singoli episodi, com’erano le cassette di Hannah nella prima stagione, le polaroid nella seconda e gli interrogatori della polizia nella terza), sia una differenza sostanziale di mood e di tono. Questa quarta stagione è infatti molto cupa, dark, urlata. Nonostante la riduzione nel numero degli episodi, in alcuni punti la serie si trascina, perché non si avverte più né l’urgenza delle tematiche della prima, né la volontà di “scoprire il colpevole” della terza.
Le puntate sono estremamente difformi l’una dall’altra. Ci sono episodi caratterizzati da un tono quasi horror (si veda la puntata ambientata in campeggio), altri che calcano molto sulla tensione e sull’angoscia (la puntata della sparatoria a scuola), altri ancora estremamente tragici (si veda, in particolare, il finale). Il protagonista Clay Jensen, ormai vittima delle sue paranoie e sull’orlo di una crisi nervosa, continua a vedere i fantasmi dei suoi compagni morti (come già faceva nel corso della seconda stagione con quello di Hannah), con i quali si lascia andare a lunghe dissertazioni.
Quello che rimane un punto discutibile di questa quarta stagione è la rappresentazione della scuola che viene messa in scena. Il liceo viene presentato come un incubo a cui si deve, in qualche modo, sopravvivere. Questo assunto, ribadito più e più volte sia nelle battute che nelle vicende messe in scena, viene considerato valido non solo per i protagonisti, che hanno sicuramente vicissitudini familiari e problemi relazionali non facili da affrontare, ma per tutti gli studenti liceali. Allo scopo di sottolineare questo presupposto, nella quarta stagione la Liberty High viene rappresentata come una via di mezzo tra una prigione e un commissariato in cui, allo scopo di garantire la “sicurezza” degli studenti, ci sono metal detector all’ingresso, i poliziotti girano armati nei corridoi, gli atti di vandalismo sono all’ordine del giorno e in cui, da un momento all’altro, può scoppiare uno scontro diretto tra gli studenti e le forze di polizia.
Un ritratto della scuola, insomma, fortemente negativo e distopico che, anziché aiutare gli spettatori a riflettere in modo costruttivo su tematiche comuni e sulle difficoltà di un periodo delicato come quello dell’adolescenza, non fa altro che favorire un rigetto dell’istituzione stessa, percepita come un nemico a cui bisogna in tutti i modi resistere.
Cassandra Albani
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