Il liceo Las Encinas è una prestigiosa scuola privata, frequentata dalla crème de la crème (l’élite, appunto) delle ricche famiglie madrilene. Giovani privilegiati, abituati ad avere il mondo ai loro piedi e la cui vita scorre apparentemente priva di preoccupazioni, tra feste in piscina e vestiti all’ultima moda. Peccato che, dietro questa facciata dorata, si nasconda una realtà molto meno idilliaca, dove trovano terreno fertile le droghe, la malavita, i ricatti, i tradimenti.
A fare da contraltare al punto di vista di questa nuova classe dirigente in erba ci sono tre personaggi, tre giovani di umili origini che hanno vinto una borsa di studio per frequentare la scuola. Nonostante provengano da un contesto sociale ed economico totalmente diverso da quello dei loro compagni (Samuel è figlio di una donna single e ha un fratello maggiore appena uscito di prigione, Nadia proviene da una famiglia palestinese osservante e piuttosto chiusa…), i tre ragazzi finiranno inevitabilmente per essere coinvolti nei segreti e negli intrighi dei loro compagni di classe.
Élite ripropone una formula di successo già testata da alcune serie americane, tra cui Tredici: quella di mescolare ingredienti tipici di un teen drama (amicizie, amori, rivalità scolastiche, relazioni familiari) ad altri caratteristici di un thriller. Ognuna delle tre stagioni, infatti, presenta un “caso” (un omicidio nella prima e nella terza, la scomparsa di un ragazzo nella seconda), che permette agli autori di articolare la narrazione su due piani temporali distinti: il presente, che ruota attorno alle indagini della polizia, e il passato, la parte più consistente, raccontata attraverso numerosi flashback.
La serie si presenta con l’intento di affrontare numerose tematiche “calde” per i giovani dell’età dei protagonisti e di quello che si suppone essere il target di riferimento (come la disuguaglianza economica, la tossicodipendenza, le malattie sessuali, il razzismo, la discriminazione, il bullismo…).
Purtroppo, però, la scelta di un punto di vista vicino ma, nello stesso tempo, irrimediabilmente lontano dal pubblico (la maggior parte dei protagonisti vive una vita lontana anni luce da quella di una persona normale), l’assenza di un qualsiasi modello di riferimento adulto e, soprattutto, la tanto ovvia quanto semplicistica equazione secondo cui ricchezza significa la mancanza di una qualsiasi coordinata morale, rendono Élite un prodotto decisamente povero dal punto di vista educativo.
Élite è una serie esteticamente ben confezionata, concepita per suscitare l’interesse del pubblico di riferimento. I protagonisti sono giovani, belli e ricchi, la storia, seppur ambientata e girata in Spagna, non ha una forte connotazione locale e l’alternanza della linea narrativa gialla con le dinamiche più tipiche di un dramma adolescenziale riesce a mantenere alti la tensione e l’interesse, se non altro per arrivare alla soluzione del caso presentato nella prima puntata di ogni stagione. Come se non bastasse, la serie – targata Netflix – ha tentato di cavalcare l’onda del successo de La casa di carta, altra produzione spagnola, con cui Élite condivide alcuni membri del cast. Non stupisce, dunque, che la serie abbia ottenuto un discreto successo presso gli adolescenti. Successo che ha portato a tre serie già realizzate e ad almeno altre due confermate.
Ma basta guardare un paio di puntate di Élite per rendersi conto di quanto desolante e deprimente sia il quadro della ricca gioventù spagnola dipinto dalla serie. I protagonisti di Élite ricattano i professori, spacciano a scuola, assumono l’identità di altri, rubano, sperimentano una sessualità fluida e priva di qualsiasi tabù (nella prima e nella terza stagione, ad esempio, vengono messi in scena rapporti a tre, mentre nella seconda troviamo addirittura un incesto).
Quello che, tuttavia, sconvolge di più è l’assenza di una qualsiasi figura di riferimento adulta positiva. Non solo, in una serie ambientata prevalentemente a scuola, mancano i professori (pallide figure che si muovono sullo sfondo, senza alcuna connotazione specifica ad esclusione della preside, nonché madre di uno dei ragazzi, uno dei pochi personaggi adulti che manifesta un minimo di empatia e comprensione nei confronti del figlio), ma i padri e le madri dei protagonisti sembrano riassumere tutto ciò che non dovrebbe essere un genitore: c’è la madre a capo di un traffico di droga, il padre che chiede alla figlia di vendersi pur di salvare gli affari di famiglia dal fallimento, la coppia di madri che corrompe il board scolastico offrendo sostanziose borse di studio pur di cancellare le colpe del figlio… Insomma, i figli vengono trattati o come eredi da iniziare a una qualche carriera criminale o come beni di cui disporre a proprio piacimento. Persino la polizia (che si identifica quasi in toto con la figura del commissario che investiga sui delitti che coinvolgono gli studenti) risulta un’entità astratta, impotente davanti al muro di omertà e bugie eretto per difendere un prestigio tutto basato sul denaro e sulle apparenze.
Paragonato a un modello adulto così negativo, i protagonisti dimostrano comunque di avere un proprio (per quanto distorto e manchevole) “codice etico”, che evolve nel corso delle stagioni, passando dal “noi ci proteggiamo sempre in quanto casta” al “noi ci proteggiamo sempre in quanto amici”. È questa evoluzione a garantire alla terza stagione quel minimo di profondità che, seppure insufficiente a rivalutare un prodotto in gran parte negativo, riesce in qualche modo a riscattarne almeno il finale.
Finale in cui i protagonisti mettono per un attimo da parte il disincanto, l’odio e il desiderio di vendetta (sentimenti che appaiono tanto più amari in quanto attribuiti a un gruppo di liceali) per imboccare una via più “sana”: quella del rimorso, del perdono, del distacco dalle famiglie di origine e della speranza verso un futuro migliore. Almeno fino alla prossima stagione.
Cassandra Albani
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